| Se l’esperimento fosse riuscito, una nuova porta di rivoluzione si sarebbe spalancata sulle frontiere della scienza. L’inconcepibile e il chimerico avrebbero valicato il confine dell’impossibile, che opprime con la sua sardonica facciata la razza dal sommo intelletto quale siamo. Avremmo abbandonato le tenebre della nostra ottusità, per solcare i giganteschi sentieri stellari al fianco dei grandi esseri celesti del cosmo più remoto. Fantasmi da immemori passati nebulosi si sarebbero manifestati ai nostri occhi increduli: le effigi eternata sulle pitture rupestri dai primevi abitanti della frammentata Pangea, le indecifrabili rune di popoli perduti nell’oblio del tempo e, persino, le alte piramidi delle lune di Giove che solo gli alti sacerdoti dei culti più arcani sono riusciti ad ammirare. Il flusso stesso della storia sarebbe diventato un’unica stringa, dove la preistoria cambriana e l’imperscrutabile futuro coesistono simultaneamente. Ero certo che il nostro spirito fosse pronto ad accogliere tali prodigi dell’esistenza. Il loro richiamo, un’armoniosa cacofonia simile al verso delle grandi balene bianche dei mari lontani, echeggiò serpentino attraverso la materia nera della galassia, fino a giungere alle nostre orecchie. La vasta gamma di suoni, infinitamente superiore a quella che noi siamo in grado di intendere, ci pervenne sotto forma di codice binario e ogni ulteriore informazione fu sempre concepita con complesse espressioni aritmetiche, le decodificazioni delle quali impiegarono le nostre menti migliori; ma ogni sacrificio fu valso la pena, per dimostrare che eravamo degni di ricevere la verità immonda e amorfa di chi ha trasceso oltre la terza dimensione; l’ambizione era sconfinata, ma l’ingegno non ancora maturo, per questo i nostri antenati caddero nel baratro della follia, quando quella giunse da loro. Adesso, però, non c’era motivo di temere, né indugiare: avevamo impostato le coordinate per l’arrivo nel caveau del laboratorio. Quella notte l’uomo avrebbe abbracciato l’infinito degli eoni più reconditi. Il cielo indaco sfavillava dei bagliori di mille stelle variopinte, vessilli della marcia interstellare in atto in questo esatto momento. La camera blindata era pronta all’approdo e ogni via d’accesso al settore era stata serrata, come cauzione d’emergenza, seppur io, personalmente, ritenessi tutto ciò innecessario. Allo scocco dell’ora fatidica, ognuno rivolse il proprio sguardo al di là della finestrella in vetro rinforzato della porta. Una muta ansia e un velato timore si insinuarono nell’aria, ma nessuno sembrava capace di distogliere la vista dall’apparizione in procinto di succedere. D’un tratto, il silenzio venne infranto da un subdolo – benché acuto – ronzio, proveniente dal centro della stanza; in un breve attimo, la vibrazione crebbe d’intensità, divenendo più affine a innumerevoli sussurri di voci indefinibili. Dal nulla, un pallido bagliore si generò nella medesima origine, per poi culminare, insieme a quei perversi mormorii, in una deflagrazione. La luce scaturitane proiettò, senza fine, nella sua cecità, riflessi di prismi su poliedri dalle forme irrazionali, esiliando ogni qualsivoglia ombra o confine dimensionale. Per pochi secondi, sostammo in un universo di nulla assoluto, privi di ogni capacità sensoriale, eppure riuscivamo a percepire i nostri dintorni, come se un primitivo e innato istinto ci guidasse in queste landa di vuoto, dove tutte le cose nascono e, un giorno, ritornano. Forse qualcuno avrebbe voluto urlare a questa insana visione, ma prima che fosse possibile, in quell’esangue scenario si materializzarono i nove soli dalla tinta di smeraldo di Bago-sherùm, il pianeta delle creature che si contorcono in interminabili spire vischiose, che osservai di persona in un frangente di quel chiarore; poi i raggi si ritirano nell’inesistenza e, davanti a noi, sorgeva quell’essere. Giunto dagli abissi più perversi del firmamento, l’abominio era una massa informa, in cui era impossibile distinguere un qualsiasi organo o apparato. Dalla fondo si diramarono, senza preavviso, una serie di untuosi tentacoli, che sfruttò per rivolgere la sua protuberanza principale – suppongo sia la sua testa, se così si può chiamare quell’obbrobrio –, dalla sagoma di fungo, verso l’uscita. Allora capimmo la perversione di quello scempio: non possedeva tratti facciali, ma percepivamo il suo ghigno, un blasfemo diletto pervadeva il suo essere, che stava schernendo la nostra stessa esistenza. Strisciò verso la porta e dal corpo bulboso e ributtante espulse un appendice, che per la sua rassomiglianza a un braccio umano mi fece rabbrividire; esso, infatti, era un’articolazione culminante in un quattro dita affusolate, simili a minute proboscidi. La trascinò attraverso tutta la parete, tastandola solo con le estremità. Attanagliati dalla paura più viscerale, ci limitammo a seguire con lo sguardo ogni sua azione, del tutto incapaci di spiccicare parola o reagire in ogni altro modo, finché non avvenne. L’orrore senza fattezze corrose, con delle spore dal palmo, la barriera di metallo che ci separava. Inoltre, emanò dai larghi pori, che ricoprivano tutto il suo corpo, un vapore erosivo col quale lasciò la propria sagoma sul muro, al suo passaggio. In quel momento, il terrore raggiunse il suo apice: nessuno riusciva a muoversi, soltanto uno di noi scienziato fu capace di strisciare contro la scrivania, tentando disperatamente di far uscire un grido, che quella scena di incredibile follia soffocava. La mostruosa progenie delle stelle si avventò su di me per primo. Caddi a terra, sotto gli occhi disperati dei miei colleghi e dei militari, a cui le forze per premere il grilletto delle proprie armi vennero a mancare. In quell’istante, sentii quasi un certo sollievo, cosciente che sarei morto senza dover patire le sofferenze altrui e assistere alla conquista della Terra da parte di una minaccia sconosciuta, che io stesso avevo richiamato. Purtroppo, la sorte non aveva in serbo per me tale fortuna: come le sue proboscidi si posarono sul mio volto, nella mia mente balenarono le immagini della civiltà nascosta sul lato oscuro della Luna, che con i suoi tempi piramidali aveva ispirato le imponenti tombe egiziane, dei primi argonauti interstellari, che tracciarono a Nazca i primi porti da dove caricavano esemplari terrestri da riportare nella loro patria lontana, e dell’originale Prometeo, che discese dal cielo per donare all’uomo la fiamma primordiale. Quando ottenni nuovamente la mia umana visione, notai come i soldati parevano pronti a far fuoco sull’invasore, tuttavia, prima che potessero fare alcunché, quest’ultimo sparò, nel fascio di albore da cui era giunto. Pensavo che quella visione fosse la verità immonda e amorfa, che i miei antenati non erano riusciti ad accettare; la rivelazione, però, giunse soltanto quando uscii dalla struttura di ricerca. Mentre mi dirigevo a casa, da ogni parte scrutassi, vedevo quei colossi dalle mille braccia e dai mille occhi camminare fra noi, osservarci, studiarci, in attesa del giorno della loro venuta. Ogni cento anni, mandano un ambasciatore a immettere un parassita nel cervello degli uomini, per monitorare la situazione; sono un prescelto, ma non mi sento fortunato. Poi, alla fine dei tempi, i figli dell’abisso cosmico torneranno nella loro colonia a mietere i frutti del loro antico lavoro, soggiogando gli effimeri schiavi. Non so chi altro sia stato maledetto con questo presagio di disgrazia e sventura, io, però, non riesco più a convivere con questo martirio. Giorni fa, posi una lametta da barba sul bordo del lavabo; a ogni calar del buio, dopo ore insonni, mi alzo e la osservo, in attesa di quella particolare nottata, quando l’afflizione sarà talmente intollerabile, che non ripenserò ulteriormente alla scelta che mi rimbomba nel capo, ogni volta che osservo fuori dalla finestra e uno di quegli esseri assurdi e straordinari risponde al mio sguardo.
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