Anche questo è un pelino lunghetto, ma sapete che non ho il dono della sintesi.
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Occhi di SerpenteBenvenuti!, Bienvenues!, Welcome!, questo è Libano Casinò: l’amarezza aspetta fuori!Tappeti rossi come strade, strade per ogni direzione.
“Italiano? Pure lei? Io di Roma, Roma centro”.
Annuisco con un sorriso di circostanza. “Io sto più a nord”.
“Pieno d’Italiani qui, eh?, uno non se l’aspetta mica”.
“È che siamo un po’ dappertutto, ma più che altro ci facciamo riconoscere”.
Ride di gusto, “Parole sante, parole sante!”. Sorride, lui, quello di Roma, Roma centro, non capisce d’esser di troppo. Giochi di luce, arabeschi, bianco ossa di pavimenti in marmo lucido.
“Prima volta, lei?”.
“Prima volta, ma solo per fare un giro, non gioco d’azzardo”. Non pare importargli: attacca con i tecnicismi, un fiume di considerazioni su questo-quello, come tiri il dado o chiami la carta, ché tutto smuove fortuna o sfiga secondo come interpreti segni e posture. Poi Beirut, che anche se c’è chi si spara per strada, ha un fascino tutto suo ed è il ventricolo del mondo.
Parole, una cortina di parole: lascio intrecciare i sermoni e la soffusa musica d’orchestra, assecondando con occasionali cenni d’intesa. Frugo con lo sguardo oltre di lui: appari in quel preciso momento. Insolita, un po’ rigida, il passo di chi sia costretta su tacchi troppo alti da portare. Ti dona quell’abito nero spaccato al fianco, la sobria parure.
Lui sembra intuire, “Pieno di belle donne, nevvero?”.
“Pieno così”.
Non gli dico che m’importa poco o nulla, che sono lì per una, una solamente, quella che sta all’impiedi pochi passi dietro di lui.
Ti allontani, verso la hall.
“Faccio un giro”, recito, “Ma lei non sparisca, ha visto mai che me la senta di tirar due dadi più tardi”.
“Quando vuole”.
Cammino a passo spedito. Lobby core, poi i saloni dell’Opera. Ovunque tu stia andando ci sarà la giusta cornice, intonata al vestito, la collana, i capelli. Ogni cosa, qui, segue logiche proprie e sorprendenti.
Sosto accanto al banco in marmo oltre cui alloggia un barman trentenne libanese doc: detesto l’idea di sembrare un improvvisato stalker, così fingo d’ammirare le ordinate sequenze di bottiglie e cristalli colorati.
“Un analcolico, grazie. Quello che le pare”.
Bicchiere riempito con pochi, agili movimenti.
Non so cosa dirti, come iniziare, se ti accorgerai che non sarà un incontro casuale.
Due sorsi.
Goccia in caduta sul marmo del banco.
Deo gratias che mi eviti un’imbarazzante macchia sullo smoking in comodato.
Cercarti, quasi subito ritrovarti. Mai distrarsi, amore è come guerra:
lui è arrivato.
Né più né meno come lo ricordavo, alto biondo notevole, Lamborghini giallo ocra con targa svizzera.
Due convenevoli, poi avrà sete e vorrà giocare, mi dicono faccia ogni sera così.
Benvenuti!, Bienvenues!, Welcome!, questo è Libano Casinò: l’amarezza aspetta fuori!Seguirvi attraverso la main lobby è sfidare un deflusso di corpi riccamente ornati, chi cerca le slot, chi il black-jack, chi semplicemente una boccata d’aria; stare a mezzo metro da ognuno, rispettare privacy e netiquette come da preciso regolamento di galateo, cercare sempre il sentiero meno irto di accaniti fumatori: ogni cosa richiede abilità qui dentro.
Maledetta idea di venire qui stasera.
Puntare, senza fretta, alle sale da gioco, bicchiere in mano e la sensazione di stare facendo la cosa sbagliata.
Lampadari grandi come automobili, luce candida e soffusa, atmosfera rilassata: il regno dei gamblers del dado. Lui si aggrega al tavolo più fornito di giacche lussuose e femmine procaci, ti pretende con sé: porterai fortuna?
Osservo, dalla distanza, e mi cerco dove sedere perché temo sarà lunga.
Il drink non aiuta a passare il tempo, al contrario, lo allunga goccia a goccia.
Ti intravedo, al suo fianco, assistere a tiri che posso indovinare dalle reazioni dei presenti. Plausi del sette, signorile delusione al lancio fallito, un rumoroso coro all’occasionale Occhi di Serpente.
A pensarci, mai saputo tirare due dadi decenti.
Odio i dadi. Dodici facce ghignanti si scontrano con rilievi ed asperità del tavolo, rotolano fottendosi poco a poco la tua sanità mentale mentre preghi speri imprechi che ti regalino un sorriso.
Quelle poche volte, mi hanno regalato solo Occhi di Serpente.
E camminano, le lancette. Con il tempo passa l’esaltazione dei primi momenti, sopravviene apatia e infine noia. Qualche sbadiglio discretamente coperto col gesto della mano già affiora, ricorda a me e chiunque altro ti stia guardando che sei qui per far piacere a lui. Scommetterei la paga che non ti garba, affatto, il gioco d’azzardo.
E allora via, movimentiamo questa notte sonnolenta.
Mi alzo e muovo qualche passo lento verso il tavolo ancora pieno di oziosi, sempre lo stesso bicchiere in una mano, l’altra in tasca. La tua mano, invece, sembra annoiarsi nella sua: sei il più costoso dei suoi portafortuna.
Nuova puntata, nuovo lancio.
Mormora la folla, geme il ruffiano.
Composta stizza.
Occhi di Serpente.
E allora ritenterà, come sempre, per l’ennesima volta. Fiches rosso passione spostate in pila, dadi di nuovo saldamente tra le dita.
Forza amore!, impossibile dire se parli a te o a sé stesso.
Colgo un varco tra gli astanti, un’occhiata discreta: allungo due-tre fiches blu marino dalla tasca. “Venticinque che il signore vince il lancio”.
Lui alza gli occhi. Mi squadra intenso per istanti come ore, perplesso, indeciso, perché no forse
soddisfatto che qualcuno punti su di lui invece che su un numero. Lo stesso tu, un’occhiata più composta, frecciata d’ebano. Incontrate entrambi solo il mio sorriso di marmo ed un cenno del bicchiere,
Salute!, auguri per il tiro.
Gesto della mano, due piccoli cubi in corsa divergente, pochi scontri, una giravolta, infine stop.
Dado:
primo elemento al mondo portatore di discordia, dopo la donna.
“7. Il signore vince”.
Breve plauso.
Lui sorride, spegne la sigaretta. “Italiano?”, l’accento è pesante.
Annuisco, stessa espressione circostanziata.
“Allora grazie”, recita.
“Di cosa? Ha fatto tutto lei”.
Restituisce il doppio della mia puntata. “Posso offrirle qualcosa?”.
Cenno di no, composto, indico il bicchiere ancora mezzo pieno. “Devo guidare. Ma prima o poi prenderò un autista, parola. Grazie lo stesso”.
Freddo, un brivido, i tuoi occhi fissi su di me: studi osservi scandagli, ricordi?, ricostruisci circostanze, colori e suoni. Incrociarti è sfiorare un mondo parallelo di silenzi e promesse, voci lontane, paure anche.
Ti sto guardando, fissando, ammirando. Occhi negli occhi, senza ragione, sperando pregando supplicando che lui non se ne renda conto. Che tu possa ricordarti di me.
“Mi assiste per qualche altro lancio?”.
Secondi rosso fuoco per ritornare alla realtà, lo stesso tavolo, ancora dadi, ancora i volti dei ruffiani, ancora questo mondo. Sorriso recuperato in una frazione di apnea che precede l’abisso, evita la rotta, scongiura il fallimento di questa serata irrazionale. “La ringrazio, ma conosco i dadi: posso farli andar bene una sola volta, dopo incominciano gli Occhi del Serpente. Vado a prendere un po’ d’aria sulla terrazza ovest. Più tardi ripasserò sicuramente. Buona fortuna”.
Un cenno di ringraziamento, distratto, in fondo non gli importa più di tanto. Ha te, il resto è accessorio: continuo a chiedermi se anche tu non sia solo un lusso.
Terrazza ovest, esca lanciata.
Se la raccoglierai, se abbandonerai il mortorio dei dadi anche solo qualche minuto, questa serata non sarà stata spesa invano. “Buona notte”, più a te che a lui, che nemmeno mi ascolta, ritorna al suo gioco.
Mi allontano, senza fretta, verso una nuova destinazione.
Ti aspetterò, tutto il tempo, senza alcuna pretesa, alcun orgoglio.
Benvenuti!, Bienvenues!, Welcome!, questo è Libano Casinò: l’amarezza aspetta fuori!***
Mare, mare di notte, a perdita d’occhio.
Luci della costa: il Mediterraneo le specchia in cielo sotto forma di stelle.
Poca gente, solo tavoli e sedie, il restaurant inquadra Beirut in una sorta di ritratto postmoderno.
Ti scorgo varcare la porta a vetri e il mondo accelera i battiti.
Cenno di saluto, senza valore, perché tu sappia che non ci sono scuse, né finzioni, nessun alibi, nessuna maschera da indossare, che lo smoking che ho addosso è noleggiato, come la economica Toyota che mi ha portato qui dalla periferia ovest.
Brezza di mare, tra i capelli, e sempre più assomigli alle Nereidi che forse guardano là sotto, tra i flutti.
“So di averla già vista”, sorridi leggera, “Ma proprio non ricordo dove”.
“Dammi del tu, ti prego”. Indecisa, forse ho spinto troppo, il tempo scorre. “Comunque sì, ci siamo già visti. Due settimane fa, se può aiutarti”.
Esiti, dubbiosa, e non so dire se simuli o davvero non ricordi, se stai giocando con me come io ho giocato con te. “Un altro indizio: Al-Mazra”.
Illuminazione fugace.
“Eri a Cornish”. Pausa, altre immagini affiorano. “Forse eravamo nello stesso gruppo? Non ricordo molto bene, scusami, ma con quella confusione, i soldati, la strada…”.
Sorrido.
“Certamente, non ti preoccupare”.
Ma forse ancora ho una carta da giocare, l’ultima. Appoggio le mani di taglio alla fronte, come a chiederle di guardare solo quello, solo il mio volto, escludere il resto che, certamente, non aiuterebbe.
Solo il volto, come il resto non ci fosse, sparisse nel nero opaco del mare.
E allora sì, ricordi, ricordi bene. Inclini il capo, leggermente, l’espressione di chi ha infine realizzato un pensiero inseguito troppo a lungo. “Tu”, il più bel sorriso che potessi regalarmi, “Tu eri…”.
“Se fossi venuto qui stasera con l’elmetto non penso mi avrebbero fatto entrare”.
“…nella scorta”.
Labbra dischiuse per la sorpresa, braccia conserte. “L’unico che parlava italiano, tra gli altri soldati c’erano solo inglesi e francesi, e io con le lingue…”.
Ridiamo leggermente, assieme, a ricordare che eravamo in due tra i tanti a rischiare di prenderci un proiettile firmato Hezbollah durante l’evacuazione dei quartieri residenziali.
“Non pensavo che un soldato potesse” mani aperte come a indicare la meraviglia economica tutt’attorno, “Passarsi la nottata al Libano Casinò. Voglio dire…”.
Leggermente confusa, d’altronde è lo stesso per me.
“In realtà non sono proprio un soldato… Lavoro per Blackwater, proteggiamo gli stoccaggi e il personale della compagnia. È un po’... diverso”. Gesto approssimativo per sviare il discorso. “Ma non sono qui stasera per giocare d’azzardo o spender soldi”.
Attesa, tacito invito a proseguire.
“Mi avevi chiesto di tornare indietro, nel palazzo, a prendere una cosa importante”.
Sorridi, confusa, un gesto della mano come a dire che non importa. “Sì, la collana turchese. Era di mia madre e non volevo lasciarla lì, mi è dispiaciuto proprio”.
Annuire, lentamente, quale che sia il senso. “In realtà sono qui per questo. Per chiederti scusa. Scusa per non essere tornato indietro a riprenderla”.
“Lo apprezzo. Anche se era solo un oggetto”.
“No, era un
ricordo. E io credo nei ricordi. Penso che valga la pena rischiare tutto per un ricordo, restare aggrappati a un’immagine, un sogno, un pensiero, per quanto lontano possa sembrare. Il valore delle cose si misura in significati. Il resto non conta”.
Volti il capo, ora adombrata, a cercare il mare, la notte, le luci di Beirut. “I domestici hanno smantellato la casa, la scorsa settimana, e ci hanno spedito tutto. La collana non c’era. L’avrà presa qualche miliziano di Hezbollah, o qualche sciacallo, ma non importa. Ormai è andata così”.
Silenzio amaro.
Benvenuti!, Bienvenues!, Welcome!, questo è Libano Casinò: l’amarezza aspetta fuori!Inspiro, odore di salsedine. “In realtà ci sono tornato in quella casa. Subito dopo avervi scortato al punto di raccolta”.
Iridi d’orchidea, scure, ebanite pura, il tuo viso del colore del deserto.
“Perché ho capito quanto era importante per te. L’ho fatto per quello. L’ho fatto”, voce che si abbassa, come lo sguardo, e non vorrei, “
Per te”. In silenzio, secondi come ore, un passo e non saperlo percorrere, vicini eppure distanti: la notte è una culla, il mondo una stanza. “Ma non c’era. Evidentemente era già stata portata via. Mi dispiace”.
Senza voce, siamo soli.
Soli col conforto di una notte, una soltanto, poi sarà domani.
“E tu, tu sei venuto qui stasera per questo?”, emozione crudele, malinconica, quasi irriverente.
Molto di più.
“Sono qui per lo stesso motivo. Perché inseguivo un ricordo”.
Ti ho vista quel giorno, da allora non ho mai smesso di cercarti. Perché un ricordo a volte è questo, qualcosa per cui vale la pena rischiare tutto.Vicini, ma non abbastanza. Eco di risacca, poco altro.
È come puntare tutte le fiches su un risultato improbabile, il tuo abbandonare lui e i suoi soldi per me, per uno come me, che è venuto questa sera con uno smoking noleggiato solo per rivederti.
È il lancio dei dadi: dodici facce per decidere una storia, questa notte il gambler sono io.
Rotolano i cubi, veloci, rallentano: fermi.
Il mare.
“Devo andare”, confusa, smarrita, “Mi starà aspettando”.
“Capisco”.
Trattenerti, lievemente, il brivido dell’incontro.
Pelle come seta.
“Domani la compagnia si sposta, si trasferisce verso Dar Al-Fatwa. Non sarò più qui, e non penso potrò tornarci. Ti aspetterò fino alle dieci, al terminale degli autobus. Se non ci sarai, capirò”.
Occhi negli occhi, forse per l’ultima volta.
Amarezza.
Guardarti lasciare la terrazza, di fretta e senza un saluto, è sapere che poche ore decidono per me.
È il lancio dei maledetti dadi.
L’ultimo sguardo che sai regalarmi è triste, ma so che vedi la stessa tristezza nel mio.
Resto con Beirut ed il suo mare.
Una canzone dei flutti.
Qualche stella.
Nient’altro.
***
Sole.
Mattino terso.
Lancetta corta accarezza il dieci, l’ultima ora.
Pochi battiti, il cuore comanda.
Piazzale ricco di gente ma non abbastanza da confondere lo sguardo. Passeggio, nervoso, ti cerco tra il viavai. L’Humvee aspetta nel mezzo del piazzale, e può farlo solo per pochi minuti ancora: non puoi non scorgerlo, il responso è uno solo.
Amarezza.
Addio.
Mi avvio, le gambe pesanti, stupido a credere che tu fossi alla mia portata, che mi avresti dato una possibilità, che avresti preferito un cuore pulsante a due polmoni carichi di cartamoneta. Stupido oltre misura, con i soldi della paga buttati in uno smoking, un’auto a noleggio, tutto per cosa?, inseguire un ricordo, un pensiero fisso, tutto per nulla. Come i dadi, la fortuna che non ho mai avuto.
D’improvviso, passi affrettati dicono il contrario. Alle mie spalle, cadenzati, riecheggiano nel cuore, nel vento.
Scarpe leggere, tacco alto.
L’elmetto sotto il braccio e un respiro mancato. Adesso sì, il cuore batte più forte.
Trovo l’orgoglio di voltarmi, di nuovo, verso la piazza gremita. Cercare oltre il velo di un’emozione quel volto che rammento, conosco, ho inciso a fuoco dentro l’anima.
Emozione.
Qualcosa per cui vale la pena rischiare tutto, e molto di più.
Un ricordo.
Mi sfiora una donna, occidentale, vaga oltre a passo svelto verso un’altra storia, un altro destino.
Amarezza.
La mia fortuna, ma ho un pregio: in queste cose ho sempre saputo perdere.
Elmetto alzato e messo sul capo, senza fretta, allacciato al mento. Un sospiro, l’ultimo sguardo a Place Helou che, lenta, si riempie. Dall’Humvee sporge Heyward, la mano alzata. “
Time’s up. Muovi il culo, Italiano!”.
Tempo scaduto.
Raggiungo il blindato e la portiera che mi viene aperta con scherno, “
No pussy for you, andata male, ah?”, il gesto della mano su e giù, qualche risata becera.
Ma che ne capite voi di poesia?
Due minuti, e già percorriamo la Marfaa verso un'altra storia, un altro destino.
Rimane la notte al Libano Casinò, dove l’amarezza aspetta fuori.
Mi resta un ricordo.
Uno in più.
***
Scendi le scale che sono le undici, sveglia da poco, sobrio vestito che non nasconde pienamente un corpo invidiabile; borsetta a tracolla e nessun’ombra sulla notte passata. Un saluto di circostanza alla coppia sessantenne che ha la stanza al piano sopra, incrociata casualmente a metà rampa.
Poi l’atrio, rosso di arazzi.
Hai un taxi in attesa, lui l’ha mandato a prenderti: destinazione da precisare, qualche altro luogo all’occidentale, un golf?, un circolo?, ritrovo di signori annoiati, solo un altro giorno nella soleggiata Beirut.
“
Ma’moiselle”, il portiere egiziano accenna, richiama la tua attenzione al banco della reception. “
C’est pour vous, ma’moiselle, un monsieur a laissé ici ce matin”.
Solo una busta, piccola, gonfia, niente mittente né destinatario. Carta bianca, comune.
“
N’a rien dit”.
Sorriso proforma. “Grazie”.
Passi misurati, eleganti, verso la porta a vetri dell’hotel.
Un respiro e sei già fuori, nel sole della strada. Bianco taxi Mercedes, leggermente stagionato, con guidatore già accanto alla portiera.
Ti accomodi, qualche pensiero di troppo, ora più insistente. Sai già che dentro quella busta troverai un regalo di scarsa qualità e un messaggio di qualcuno che hai visto ieri sera, uno in particolare, che fortunatamente non rivedrai più.
Tentazione non indifferente di lasciare la busta com’è, chiusa, per evitare spiacevoli pensieri, che poi magari avrà scritto una lettera, e lo avrà fatto in pessima grafia, e sarebbe umiliante la dichiarazione d’amore d’un soldato quando ne ricevi mille più importanti ogni giorno, sotto forma di regali, vezzi, piccolezze.
Lenta, l’auto si avvia per la boulevard nel traffico mattutino.
Quanto contano queste cose, questi gesti d’affetto! Un anello, un drink, una serata nel locale più prestigioso. Un vestito nuovo o un paio d’orecchini. Sono l’essenza stessa della vita. Non le lettere d’amore, o un patetico incontro sulla terrazza, vicino al mare, nella notte libanese: l’istinto è quello di gettare il pacchetto dal finestrino.
La curiosità è donna.
Un sospiro. Apri la busta con pochi gesti infastiditi.
Nessun foglio, qualcosa scivola nella mano aperta: due piccoli dadi, rossi, come quelli del Casinò.
Poi qualcos’altro, più importante.
Emozione.
Tra le dita la collana turchese.
Un ricordo.
Liberi, cadono i due dadi sul pavimento dell’auto. Pochi urti, s’allontanano e si ritrovano, come amanti ostinati.
Mormora la folla, geme il ruffiano.
Composta stizza.
Occhi di Serpente.
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Edited by « Soldier of Fortune » - 13/7/2016, 23:44